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Fondi a Bassa Volatilità (Low Volatility) e Minima Volatilità (Minimum Volatility): non sono la stessa cosa

Last Updated on 27/07/2024 by bowman

In questa fase il mercato azionario, in Europa in particolare, ma in generale in tutto il mondo, rappresenta un’alternativa se non obbligata fortemente indirizzata rispetto al mercato dei titoli di debito che hanno raggiunto in area euro rendimenti zero o negativi quasi generalizzati, e a livello mondiale picchi di minimo sui rendimenti.
Non è giusto considerare i fondi a ‘bassa volatilità’ come un’alternativa facile rispetto all’investimento obbligazionario dato che i due tipi di asset sono completamente decorrelati e la natura dell’investimento è profondamente differente.

Voglio però fare un’importante distinzione tra gli indici azionari (e i fondi o ETF che li replicano passivamente o li utilizzano come benchmark) Low Volatility e Minimum Volatility.

Si tratta essenzialmente di due metodi, apparentemente quasi identici, ma in realtà profondamente differenti, per cercare di ottenere la medesima selezione: creare un sotto-indice di un indice di mercato (pensiamo al S&P500 dell’azionario americano) che raggruppa solo le società il cui valore oscilla di meno, sia in crescita che in discesa e rappresenta quindi un investimento più ‘stabile’ rispetto ad altre aziende dello stesso mercato.
In altre parole, dopo anni ed anni di mercato ‘Toro’ che rischiano di meno svalutazioni in caso di mercato avverso, panico, crisi economica e cigni neri.

I titoli LOW VOLATILITY:

Si tratta di portafogli costruiti dando una valutazione ai titoli basati sulla misura della volatilità passata, ovvero della deviazione standard calcolata con una semplice formuletta:

{displaystyle sigma _{X}={sqrt {frac {sum _{i=1}^{N}(x_{i}-{bar {x}})^{2}}{N}}},}

Dati N elementi, si fa, dal primo all’ennesimo, lo scarto rispetto alla media (x segnata) di ogni elemento, al quadrato e diviso per il numero di elementi, la cui radice quadrata è la Deviazione Standard.
E’ molto semplice: se ho tutti i valori di chiusura di borsa dell’ultimo anno di un’azione, faccio la media del valore di borsa, rapporto ogni chiusura rispetto alla media e calcolo la deviazione standard per ogni azione dell’indice. Le 100 (di solito) con deviazione standard più bassa entrano nel mio indice ‘Low Volatility’.
E’ stato misurato che alcuni settori dell’economia diventano ‘favoriti’ nell’accedere a questo indice, ad esempio nel S&P500 L.V. si trovano le Utilities (società di grandi servizi pubblici, es. elettriche), le Real Estate (immobiliari), le Finanziarie e le Consumer Staples (beni di largo consumo come bevande, alimentari, prodotti per la casa) ai primi posti, per oltre il 80% dell’investimento.
Gli indici a Low Volatility, possiamo dire, hanno una costruzione semplice ed efficace e si basano su dati storici.


I titoli MINIMUM VOLATILITY:

La questione qui è molto più complessa. Qui dovremmo parlare più che altro di ‘Minima Varianza’ piuttosto che di Minima Volatilità. Innanzitutto parliamo di Varianza. In statistica la Varianza è la misura di quanto un elemento si discosta da un valore atteso, e si calcola su un’intera distribuzione lineare di valori. Il rendimento totale di un indice è dato dall’apprezzamento più i dividendi diviso per il prezzo originale. Ok, ma i singoli titoli dell’indice che varianza hanno rispetto a questo rendimento complessivo? Faccio un esempio, se un gruppo di 10 operai ha prodotto 100 prodotti, la produttività del singolo operaio come si discosta dalla media perseguita? Se tutti hanno prodotto 10 la varianza è nulla, se c’è chi ha fatto 1 e chi ha fatto 99 la varianza è altissima.
Nei titoli a Minimum Volatility però la varianza (spesso calcolata come quadrato della deviazione standard di ogni singola performance rispetto al valore atteso) viene utilizzata costruendo delle matrici di covarianza. Cosa è la covarianza? E’ il modo in cui la varianza di due insieme risulta correlata in determinate condizioni, quanto due variabili in una certa funzione (quindi in un certo contesto di mercato) variano insieme. Due titoli azionari possono essere covarianti se entrambi influenzati in egual modo dall’effetto dei tassi d’interesse, per dire, o dal crollo del settore. Se abbini più liste di titoli (una per ogni funzione di covarianza, es. una covarianza sulla base dei tassi d’interesse, l’altra nel caso di recessione etc…), si ottiene una matrice di righe e colonne. Ci saranno settori/rischi ad elevata covarianza (esempio banale: fallisce una banca e scendono tutti i bancari perché non si prestano più soldi a vicenda e si attua un credit crunch) e settori/rischi a bassa covarianza (per dire i tassi d’interesse influenzeranno molto poco i beni di extralusso).
Una matrice di covarianza serve per contenere la covarianza complessiva del sistema, il mix di liste di titoli per tipo di rischio che la ottimizza diventa un paniere a ‘minimum variance’, questo paniere dovrebbe aver selezionato i titoli in modo tale che siano meno correlati tra loro e distribuiti più omogeneamente rispetto alla serie ed all’andamento del mercato, La ‘storia’ (volatilità) del singolo titolo c’entra quindi pochissimo, qui si fa un modello per ‘ottimizzare’ il rapporto tra i vari rischi.
Si tratta di strumenti molto meno empirici ed estremamente più strutturati per creare un indice.
Il risultato è che la costruzione dell’indice è molto più complessa e l’indice possiede quindi minore protezione dai rovesci di mercato della sua controparte a Low Volatility. Soprattutto il singolo titolo del paniere non è detto che sia a bassa oscillazione di prezzo, magari è estremamente volatile, ma è entrato nel paniere per via della stima della sua scarsa correlazione e covarianza con gli altri titoli. Per dire gli indici High Tech, ad altissima volatilità, potrebbero essere ben decorrelati e collocarsi bene nel paniere di una matrice a covarianza ottimizzata. I titoli informatici, ad esempio, possono essere ben poco influenzati da problemi di mercato come i dazi.
Il risultato finale è anche che la natura degli investimenti è spesso molto differente: riscontriamo che nel S&P500 il Minimum Volatility vede a primo posto la presenza di titoli High Tech ed Informatici, seguiti da ‘Consumer Discretionary’ ((beni non essenziali quali quelli di lusso), poi i beni di largo consumo (che quindi si piazzano bene sia come bassa volatilità che a bassa covarianza dentro l’indice, e possiamo considerarli statisticamente davvero ‘difensivi’!) ed in misura molto minore sanitari e farmaceutici.
A mio parere il Low Volatility è un sistema semplice ed efficace da applicare a fondi ed ETF. Il Minimum Volatility, seppur molto più fine ed evoluto (del resto i rendimenti passati non sono garanzia di evoluzioni future) si basano sulla corretta costruzione dei giusti modelli di risk management. L’effetto finale è che spesso i modelli delle matrici di covarianza non sono perfetti, e vengono spesso rivisti con una certa frequenza, ed il semplice si abbina meglio agli investimenti passivi (che spesso hanno anche bassa disponibilità di capitale) mentre il minimum variance si applica bene a modelli multi-fattoriali di fondi blasonati, compagnie assicurative e roba sofisticata insomma.

Andiamo, per l’indice S&P500 a verificare le conseguenze in 18 mesi turbolenti (con una fase di picco negativo e poi una forte crescita), di 3 ETF: il iShares Core S&P500 usd Acc (IE00B5BMR087), il suo equivalente Minimum Volatility (IE00b6SPMN59) ed il SPDR S&P500 Low Volatility (IE00B802KR88):

Come vediamo entrambe le versioni che selezionano titoli a minore volatilità hanno ottenuto una performance migliore, semplicemente perché nelle fasi di mercato avverso hanno reso più progressivo il corso. C’è una grande e visibile differenza tra il titolo SPDR Low Volatility (in azzurro) che ha resistito molto bene agli storni anche minori del mercato e dell’indice, ed il Minimum Volatility (in rosso) che è molto più parallelo all’indice, poiché probabilmente possiede anche strumenti ad alto rischio dell’indice generale, ma selezionati per una minore varianza rispetto al risultato.
Si tenga conto che tale performance è stata ottenuta nonostante il fatto che il titolo SPDR abbia un costo quasi doppio al Minium Volatility (0,35 di TER contro 0,20) e pari a 5 volte il minimo costo affrontato replicando in maniera del tutto passiva il S&P500 (che costa 0,07% l’anno).

P.C. 25.10.2019

1 commento su “Fondi a Bassa Volatilità (Low Volatility) e Minima Volatilità (Minimum Volatility): non sono la stessa cosa”

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