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ARTICOLO: This Time is Different?

Last Updated on 27/07/2024 by bowman

Sono trascorsi dieci anni dalla pubblicazione del pregevole
saggio degli economisti Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff intitolato “This Time is Different: Eight Centuries of
Financial Folly
” (Princeton University Press, 2009). Quanto descritto dal
titolo del saggio è il commento che oggi riportano molti giornali ed addetti ai
lavori, sul tipo di shock economico cui tutti noi stiamo assistendo.

Lo storico dell’economia, però, abituato ad un’analisi di
dati distribuiti su un ciclo temporale più lungo, ritroverà oggi degli schemi
più famigliari di quelli di molti altri economisti, cresciuti studiando libri
di testo che riportavano dati sulla mortalità analizzanti da un punto di vista
che non conosce più le crisi epidemiologiche dell’antichità e per i quali ormai
si è passati da malattie trasmissibili
da persona a persona a malattie degenerative non trasmissibili
” (cit.
Malanima, 2003).
Il dogmatismo di alcune posizioni scientifiche in merito
viene oggi smentito da un fenomeno, una crisi di natura sanitaria globale (pandemia)
che lo storico sa essere una costante che periodicamente affligge la realtà
umana e travolge i rapporti sociali, le istituzioni ed il sistema economico. Per
fortuna su cicli lunghi. L’Economia viene riportata, in questo, alla sua natura
originariamente umana che si sottrae a regole fisse e rigide analisi
quantistiche.
Come sempre accaduto ci si trova quindi parzialmente stupiti
ad affermare “This Time is Different!”, sapendo già che le vicende umane non
rispondono mai esattamente alle stesse ‘regole’ che sembrano averle
condizionate in passato, ma sono comunque analizzabili nella loro complessità
indistinta poiché gli ingredienti delle nuove congiunture sono prevalentemente
gli stessi.
Analizzando il passato la storia delle pandemie non ci
racconta nulla di buono. Nel passato le epidemie erano eventi cui l’uomo era
abituato, crisi cicliche e diffuse che si abbattevano sulla società come le
guerre e le carestie, tanto spesso da essere tra le sciagure più temute: l’apostolo
Giovanni nella sua Apocalisse vi associa addirittura la figura dei cavalieri. Oltretutto
questi infausti eventi avevano un buon grado di correlazione: erano le carestie
che indebolivano le difese immunitarie incrementando la possibilità di
diffusione delle epidemie ed erano i conflitti sociali e politici che spesso
erano causa di carestia, veicolo di contagio e conseguenza di periodi di
penuria.
Le pandemie, però, erano eventi più rari e globali. Se il
tessuto economico e sociale erano duramente provati dalle crisi epidemiche, le pandemie
rappresentavano periodi di cesura netta, causavano la caduta di imperi e producevano
un cambiamento nel modo stesso di concepire la società. Secondo alcune tesi
(W.Bernstein, 2008) la morìa del 25% della popolazione di Costantinopoli nel
biennio 541-42 sottrasse all’impero guidato da Giustiniano le risorse umane ed
economiche per realizzare la ricostituzione di quell’Impero Romano che a
livello politico era già stato, con grande sforzo, riunificato. Gli effetti
globali della pandemia avrebbero poi ribaltato i rapporti di forza mondiali
favorendo nei decenni successivi le popolazioni insediate in climi più ostili
ai veicoli di trasmissione del contagio (quali gli adepti dell’islamismo dell’arida
penisola araba) e più lontani dalle fitte comunità urbane che ne vennero
falcidiate. In altre parole avrebbero aperto le porte al Medioevo con la ‘nuova
forma’ (L.Leciejewicz, 2000) con cui noi oggi lo conosciamo. La pandemia del
XIV secolo è tradizionalmente considerata dagli storici come un momento di
definitiva cesura con modelli politici e culturali precedenti e la nascita di
un nuovo modo di rapportarsi alle risorse.

L’impero di Giustiniano: quando nel 542 l’imperatore si ammalò di peste Belisario, il celebre generale autore di gran parte delle sue conquiste, dovette rientrare a Costantinopoli. A seguito di questa crisi iniziarono i primi tentativi di controffensiva (quali quelli dei Goti di Totila in Italia) alla ri-conquista giustinianea. L’Impero Romano d’Oriente dimostrò di non avere le risorse per consolidare le terre ri-conquistate a partire dalla scomparsa, nel 565, sia dell’imperatore che del suo generale.

La pandemia del XIV secolo, invece, è stata tradizionalmente
considerata dagli storici come un momento di definitiva cesura con equilibri
politici e culturali precedenti (con la marginalizzazione di una concezione
feudale di ‘Stato locale’ che però si riconosceva in sistemi globali ed
universalistici come la Chiesa e l’Impero) e la nascita di un modo nuovo di
rapportarsi alle risorse. Dopo i 40 anni circa di depressione che la seguirono
(variabile da zona a zona, con poche aree, quali la Polonia, che ne uscirono
relativamente illese ascendendo in seguito alla pandemia allo status di potenza
europea di primo piano con la dinastia degli Jagelloni) si rivoluzionò
l’applicazione della tecnica in luogo di una forza lavoro divenuta meno
abbondante, tendenzialmente meglio salariata (consentendo un maggiore margine
di surplus economico che divenne luogo d’essere di un ceto borghese in crescita)
e costosa da impiegare nelle lavorazioni artigianali più complesse che si
cercava di automatizzare e semplificare il più possibile, si pensi alla lenta e
costosa produzione libraria a mano che venne sostituita e rivoluzionata dalla
tecnica a stampa. Ovviamente l’innovazione tecnica, giuridica dell’Umanesimo e
poi del Rinascimento richiedeva anche capitali da impiegare generati secondo
molti storici dall’economia anche dal surplus generato da una produttività
marginale più alta ottenuta da un miglior rapporto tra domanda e fattori
produttivi meno scarsi (si pensi all’abbandono dei terreni marginali messi a
coltura fino alla prima metà del XIV secolo a favore di aree più intensive).

Senz’altro la crisi pandemica attuale si abbatte su una
società ed un sistema economico molto diverso, più avanzato come grado di
complessità e disponibilità di mezzi tecnici rispetto a quello dei secoli
passati. Mai come oggi le conoscenze sanitarie sono in grado di contrastare
l’azione della natura e la comunicazione e le potenzialità che questa offre
quanto alla coordinazione di sforzi comuni non sono neppure lontanamente
paragonabili. Per questo è possibile che i suoi effetti siano molto più
contenuti che in passato. D’altra parte, però, la pandemia si diffonde in
maniera molto più rapida, in una comunità umana esponenzialmente più numerosa
ed in un substrato sociale non abituato a confrontarsi con problemi simili,
laddove appunto il problema delle malattie trasmissibili da uomo a uomo o da
animale a uomo era relegato in un breve paragrafo dei libri di storia.
Il contesto in cui questo evento viene a colpire è quello di
una maggiore specializzazione del sistema economico, fatto di legami avanzati,
ma al contempo in un sistema in cui una più fitta rete di legami può essere
compromessa. Banalmente la pietra della pandemia, anche se più piccola, può
cagionare un danno più rilevante dentro una cristalleria che contro le mura di
un castello.
Lo shock sull’economia reale è oggi stimabile, ipotizzabile,
ma ancora di là da vedersi. I mercati finanziari, che possono essere visti come
un apparato circolatorio utile ad una diagnosi delle patologie del sistema,
tendono ad anticipare sulla base di analisi di prospettive, ma anche di ansie e
paure, l’evolversi della situazione economica.
I mercati sono stati colpiti in una prima fase da una crisi
da cosiddetta ‘tempesta perfetta’, termine caro a chi osserva i forti ed
improvvisi picchi che ciclicamente ed inesorabilmente si susseguono nel loro
andamento. In pochissimi giorni le notizie sulla diffusione del virus hanno
permesso ad uno stato di paura pura di subentrare sostituendo un precedente
periodo di decisa euforia alimentata da lunghi corsi di politiche monetarie
accondiscendenti. Dalla sovra-percezione della redditività del mercato uno
scenario così incerto, con connotati così lontani nel tempo e nella memoria, ha
condotto ad una fase di sovra-percezione del rischio. E’ inevitabile che la
percezione cambi nei mesi seguenti, ma non è possibile per lo storico, né per
l’economista o l’analista onesto, avanzare solide stime su un periodo futuro
che non è ambito di studio dell’uno né di analisi dell’altra, poiché molto
dipende da decisioni ancora da prendersi e dall’impatto di troppe variabili su
un sistema globale.
Alcuni economisti si sono affrettati a descrivere la
presente crisi come simmetrica dal punto di vista della domanda e dell’offerta.
È evidente che nella sua prima fase, nella sua eruzione, il problema è questo:
pochi possono comprare, pochi possono produrre. Non è la liquidità del sistema
il problema, poiché è l’unica (al momento) disponibile e viene messa sul piatto
per rassicurare e sorreggere l’economia. Non si tratta di una crisi di
domanda/offerta uguale a quella di un conflitto bellico, sebbene esistano delle
analogie: i fattori produttivi, da un lato, non sono distrutti e la forza
lavoro, dall’altro lato, non è impiegata altrove a tempo indeterminato. Può
trattarsi quindi di una sospensione dell’attività che potenzialmente può essere
riattivata a condizioni prossime, alle precedenti. Il problema è qualora questo
shock simultaneo domanda/offerta, che compensa in qualche modo l’assenza di
produzione con l’assenza di consumo, si sbilanciasse in direzione di una delle
due.
Probabilmente “this time is NOT different” rispetto a quanto
l’umanità ha già sperimentato in altri contesti nel passato, ma l’evoluzione
degli eventi e dei processi economici può ancora prendere diverse vie.
Da un lato può esserci una funzione pubblica, istituzionale,
a farsi carico di gran parte del peso dell’attuale shock, scaricando come un
ammortizzatore uno squilibrio che non deve essere fatto gravare sui fattori
produttivi. Questo permetterebbe a livello teorico al motore dell’economia di
essere riavviato e rimesso in moto senza troppi danni alle sue parti costituenti.
Il problema è che questo peso da sopportare è indubbiamente l’azzardo che ha
più probabilità di successo, ma anche il più rischioso. Il debito pubblico è un
macigno che, se generalizzato e globalizzato, può poi sfogarsi tramite
meccanismi di svalutazione/default più o meno controllati, generando
verosimilmente depressione di alcuni settori economici che potrebbero poi
trasformarsi in una crisi asimmetrica oltretutto priva di una forza istituzionale
che possa agire al suo interno come un fattore di stimolo adeguato.
Indubbiamente una sovra-nazionalizzazione dello sforzo
permette di distribuire gli impatti negativi del medesimo. L’ultimo trentennio
ha visto emergere a livello geopolitico un quadro di grandi unioni
sovra-nazionali o sfere d’influenza che hanno sostituito la divisione a blocchi
contrapposti del mondo: la Cina e la sua area asiatica, l’Unione Europea, gli
Stati Uniti con la loro influenza locale e globale, il tentativo di ripresa di
un’egemonia territoriale anche da parte della Russia, la presa di coscienza di
alcune economie emergenti ma ‘maggiori’ (i cosiddetti BRIC o BRICS) quali
attori nel contesto globale. Tale sovra-nazionalizzazione non può però essere
scevra da considerazioni particolariste: perché, banalmente, i seguaci dell’Islam
avrebbero dovuto rinunciare ad esercitare un vantaggio competitivo ed una loro
egemonia (nella pregevole ipotesi di Bernstein) laddove il contesto
mediorientale e mediterraneo della grande depressione del VII secolo gli
lasciava tale spazio? Perché delle economie che in un sistema globalizzato
perfezionano i loro indici di produttività marginale attraverso la competizione
dovrebbero ad un certo punto deporre le armi in un’ottica solidaristica che è
essenzialmente aliena ai modelli culturali del libero mercato contemporaneo?
Infine, le conseguenze di un sovra-indebitamento nazionale di
lungo corso in un’economia sviluppata sono note, ma di recente riscontro (es. i
modelli sulla ‘giapponesizzazione dell’economia’) e le conseguenze di un forte
indebitamento sovra-nazionale rappresentano modelli ancora da sviluppare.
In assenza di un forte controllo istituzionale lo shock
potrebbe risolversi e riassorbirsi da solo. Storicamente l’economia moderna e
contemporanea ha spesso trovato (come da tesi liberista) in sé stessa gli
anticorpi contro i suoi stessi mali. Qualora questo non si risolvesse tuttavia
assisteremmo ad uno shock via via più asimmetrico mentre le istituzioni più
‘deboli’ cedono e quelle più resilienti a questa particolare tipologia di crisi
resistono. Banalmente molti pensano oggi a settori come l’Healthcare ed il Consumer
Staples
, ovvero sanità e beni di prima necessità, quali aree economiche che
probabilmente hanno subito un minore congelamento della produzione a causa di
una quarantena che ha costretto all’inattività temporanea un miliardo di
persone nel mondo. In realtà i settori davvero resilienti li potremo giudicare
tra qualche anno poiché anche durante le guerre mondiali si facevano ragionamenti
simili sulle industrie pesanti beneficiate dalla riconversione bellica, ma
furono quelle poi travolte da crisi di sovra-produzione a fine conflitto. Se lo
shock, come verosimile, da esogeno all’economia divenisse un trauma che ne
compromette il funzionamento, molto del suo decorso dipenderà da quali funzioni
andrà a compromettere.
Sarà ben diversa una crisi di domanda, legata ad esempio
alla mancanza di liquidità ed all’impossibilità di consumare di una larga fascia
di popolazione con risorse ridotte, in qualche modo simile a quanto abbiamo già
vissuto a livello globale circa un decennio fa, da una crisi d’offerta. Per chi
nel nostro paese ritiene che la crisi dell’offerta, soprattutto se cagionata da
elementi esterni e dal potenziale stagflattivo, sia meno aspra, non rimane che
riflettere che nel caso italiano la gestione della crisi generatasi nel 1973-74
impose la messa in atto di provvedimenti di sostegno ai consumi ed all’economia
(quali l’alleggerimento fiscale e la scala mobile) che generarono gran parte
del debito che ha poi minato la prosperità del paese nelle generazioni
successive.
A questo punto bisognerà valutare, per storici ed
economisti, la riabilitazione di vecchi termini divenuti desueti, quali ‘Depressione’
in luogo di ‘Recessione’, per indicare un percorso di ristagno economico e
decrescita di lungo periodo che fatica a vedere una ripartenza spontanea senza
altri e ben più forti shock.
Ovviamente una soluzione di ancien régime alle crisi da pandemia rimane quella più naturale e
biologica. L’esposizione della comunità ad agenti patogeni e la loro diffusione
su una popolazione impreparata, trova la sua espressione in un riequilibrio
demografico ‘naturale’ che fa poi da riallocatore automatico dei fattori
produttivi. Questa brutale soluzione, ovvero assistere passivamente alla morte
di massa e provvedere poi ad una ridistribuzione dei fattori produttivi in
maniera più efficiente e con una produttività marginale più alta tra i
superstiti, appare oggi inaccettabile per molteplici fattori. In primo luogo,
perché la nostra è un’economia avanzata, che ha spostato la forza lavoro da un
rapporto diretto con il settore primario, sviluppando complesse strutture (più produttive)
ben lontane dalla materia prima, quindi tale riallocazione migliorativa dei
fattori produttivi, forse efficace in età pre-industriale e prima dell’età dei
servizi, oggi rappresenterebbe un tornare indietro di secoli. In secondo luogo,
perché tutti i modelli in cui questi eventi sono occorsi in passato riguardano
contesti già compromessi, come negli scenari post-bellici, o realtà precedenti
alla nascita della cosiddetta società di massa. In una società di massa come la
nostra non è noto se il controllo delle istituzioni sul caos che ne deriverebbe
possa reggere e soprattutto se questo può essere fatto ad un costo inferiore
rispetto allo scenario di un intervento forte dell’ammortizzatore istituzionale.
Probabilmente le caratteristiche biologiche della pandemia, banalmente la sua
potenziale mortalità e la sua pericolosità per la tenuta delle strutture
sanitarie e sociali, possono essere fattori determinanti.
Quanto all’uscita dalla crisi è evidente che, qualsiasi sia
la configurazione che essa assumerà nei prossimi anni, sarà asimmetrica tra i vari
settori nella gran parte degli scenari. Esiste lo scenario secondo il quale il
suo effetto sia attualmente sovra-percepito dall’economia e dalla psiche umana
che vi è dietro, ma la semplice percezione di un problema è esso stesso un
problema (o lo diventa) tanto nell’economia reale che nei mercati finanziari.
Anche se non si faranno errori irreversibili come causare il default di istituzioni
finanziarie o l’applicazione di politiche di lasseiz faire di fronte a scenari di depressione di lungo corso che
comprometterebbero i fondamentali economici di una ripresa, è verosimile che
questi vengano comunque messi a dura prova da una situazione sanitaria, e via
via economica, globale e di non facile soluzione.
È ovvio che alcuni settori saranno più difensivi di altri. Ho
già parlato di beni di prima necessità e sanitari e probabilmente delle utilities, che dovranno rimanere attive.
Altri settori, tipicamente, in contesti di shock tendono a
svalutarsi, ma possono conservare in un orizzonte temporale più lungo un valore
non del tutto endogeno al mercato che potrà tornare ed essere il motore di una
futura espansione: l’immobiliare (legato a fondamentali non esclusivamente
finanziari o correlati all’offerta produttiva), la produzione primaria (meno
dipendente da una filiera articolata di servizi avanzati), le infrastrutture
(target in passato di politiche pubbliche di stimolo economico), la tecnologia
(che dispone di un know how messo in crisi da processi di obsolescenza non
correlati a questo tipo di crisi), il settore assicurativo (che in una crisi di
illiquidità è detentore di grandi patrimoni, seppure pericolosamente esposto ad
eventuali svalutazioni del debito sovrano) ed in maniera minore e probabilmente
in un secondo momento i beni a fecondità ripetuta. Infine, altri settori
saranno ottimi candidati per crisi di più lungo corso e potenziali svalutazioni
‘lunghe’, da gestirsi con attenzione: il settore del credito, i trasporti, i
beni ed i consumi voluttuari (dove però andrebbe fatta distinzione tra quei
beni resilienti ad eventuali svalutazioni valutarie con conseguente inflazione
quali il lusso, quei beni più consumer
discreption
di largo consumo sensibilissimi ad uno shock di domanda e quei servizi
innecessari fortemente condizionati dalla de-globalizzazione ed alla ridotta
mobilità umana quali sport, turismo e simili), l’energetico (ovviamente molto
legato ad eventuali crisi da shock d’offerta).
Anche in questa crisi, come in molte altre, l’atteggiamento
opportunista espresso nell’invito di Warren Buffet di interessarsi a qualcosa
quando ‘nessuno lo fa’ sarà adatto a coglierne le occasioni, ma una buona
diversificazione può rimanere l’approccio più resiliente. Come spesso nelle
grandi crisi le regole scritte del gioco potrebbero essere soggette a repentini
cambi, gli assiomi ed i postulati potranno trovarsi disattesi ed asset
tradizionalmente considerati stabili e difensivi potranno rivelarsi come
qualcosa di ben diverso (penso molto al debito pubblico).
Lo stesso approccio diversificato, capace di miscelare vari
gradi di intervento istituzionale (locale, nazionale, sovra nazionale) e di
pianificazione, con le potenzialità intrinseche al sistema economico di guarire
da sé le proprie ferite (e questo è possibile quando gli si lascia il giusto
grado di libertà e lo si condiziona solo a percorrere le giuste dinamiche),
sarà secondo me il più efficiente anche a livello di politica economica.

P.C. 06.04.2020

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